LA SECONDA STAGIONE DI ATLANTA E IL SAPER FARE MESH UP
Atlanta è la sintesi di ogni passo intrapreso da Donald Glover durante la sua carriera e, con questa seconda stagione, il suo creatore si spinge ancora più in là sperimentando con i generi
di Davide Colli
Con la seconda stagione di Atlanta, intitolata Robbin’ Season, Donald Glover riprende le vicende del suo personaggio Earn che, dopo aver abbandonato gli studi all’università di Princeton, cerca di trovare un ruolo in una società che lo ha sempre respinto. Decide perciò di collaborare con suo cugino Alfred (Brian Tyree Henry), rapper emergente con il quale cerca di farsi strada nella scena di Atlanta, così da poter migliorare la sua condizione di vita e quella di sua figlia Lotti.
Donald Glover aka Childish Gambino, da settimane continuamente sulla cresta dell’onda per il successo di This is America, è uno degli artisti maggiormente poliedrici dell’ultimo decennio, in grado di spaziare dalla musica al grande schermo senza perdere il contatto con le sue radici, con la sua vera essenza, avulsa dalla sua immagine di celebrità. E in Atlanta Donald Glover si sottopone a un continuo esame psicologico, in modo di poter fornire alla serie quel grado di introspezione sulla quotidianità dei personaggi che altro non sono se non sdoppiamenti dell’io dell’autore/attore.
La narrazione della serie si concede spesso degli spazi di intimità, tramite i quali gli archetipi incarnati dai protagonisti abbandonano il ruolo di stereotipi per uscire fuori dallo schermo grazie alla loro credibilità. Donald Glover e i suoi personaggi crescono così contemporaneamente alla sua creatura: per questo Robbin’ Season presenta una maturità che emerge con ancora più prepotenza rispetto alla stagione precedente dello show.
Da una stagione all’altra si passa gradatamente da un’analisi prettamente personale a uno sguardo sempre più attento delle “malattie” che colpiscono il tessuto sociale odierno, dal razzismo alla segregazione etnica, fino ad arrivare all’ossessione per i social network e la fama. Il vero fine della seconda stagione di Atlanta diviene quindi smontare le etichette, le usanze e le pessime abitudini di un’America intossicata dal suo stesso stile di vita. Per farlo Donald Glover sceglie di utilizzare le tonalità della commedia, struttura di base dell’intera serie, ma lui e le altre menti dietro lo show compiono un lavoro di crossover tra generi, esplorando strade che nel panorama attuale nessuna serie comedy ha mai attraversato. Con l’episodio Teddy Perkins, per esempio, la satira che caratterizza l’intera stagione si contamina con gli stilemi del cinema horror, facendo emergere un lato recondito e marcio della società americana, incarnato in questo caso dal personaggio di Teddy Perkins che assume il ruolo di vera e propria entità mostruosa, una figura che nei suoi movimenti ingessati nasconde una violenza pronta ad esplodere da un momento all’altro. La costruzione della tensione, una costante dell’intera puntata, si rivela inaspettatamente vicina alla lezione impartita da Stanley Kubrick in Shining (la stessa produzione ha affermato di averlo preso ad esempio in più momenti), portando ai giorni nostri il modello di “edificio demoniaco”, nel quale ogni traccia di principio sovrannaturale maligno viene sostituito da traumi e disturbi che possono essere ritrovati nella realtà odierna.
Anche nell’episodio Il bosco viene inseguita una commistione tra il realismo e l’horror, nella ricerca di proporre al pubblico un nuovo esempio di critica allo status quo. In questo caso, diventa il contesto sociale nel quale si aggira Alfred (protagonista dell’intera puntata) a costituire il soggetto che scatena terrore, in quanto è in grado, per merito delle pressioni di ogni tipo di cui è costellata, di deformare radicalmente le volontà dei suoi individui. L’atmosfera riprodotta sembra ripercorrere binari già tracciati da Black Mirror, in quanto l’oggetto del discorso imbastito è identico: tuttavia qui il risultato è molto più destabilizzante, in quanto estremamente più vicino a noi per quanto talvolta alterato da interventi di natura grottesca o parossistica.
Questa ricerca del mash up tra vari generi non è certamente una novità di questa seconda stagione (la puntata Il talk show della prima ha fatto storia in questo senso, in quanto ha dato vita ad un vero collage di vari esempi di video art, tutti incentrati sulla tematica della segregazione razziale), tuttavia nei due casi precedenti si sviluppa il concetto in maniera più feroce e diretta. E questa capacità di esorcizzare con la risata amara i mali che contaminano la società americana fa di Atlanta e in particolare di Robbin’ Season un prodotto insolito, per certi versi scomodo, ma che risulta un efficace pugno allo stomaco per lo spettatore.
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