SANTII – LA NOSTRA METAMORFOSI DI STILE
Santii è il nuovo progetto di Michele Ducci e Alessandro Degli Angioli, che hanno messo da parte il loro precedente progetto M+A per dedicarsi a questa nuova creatura. Nessun rimpianto però, perché è solo sperimentando che si va avanti
di Giorgia Salerno
Durante il nostro tour su e giù per lo stivale, uno dei progetti che ci ha colpite più di tutti è Santii, la nuova “creatura” di Alessandro Degli Angioli e Michele Ducci, due stilosissimi ragazzi di Forlì («ma tutti pensano che siamo di Milano!») che avrete già sentito nominare grazie al nome del loro progetto precedente, M+A. Con loro ci siamo confrontate con una lunga chiacchierata su grafica, festival, musica italiana ed estera durante Eleva Festival, “patria estiva” della musica elettronica dell’Emilia Romagna.
Cambio del nome, cambio di progetto: avete cambiato tutto quanto, anche l’estetica. Qual è stato il motivo che vi ha spinti a diventare Santii?
In realtà il cambio del nome è avvenuto proprio alla fine di tutto! Ci trovavamo a Londra per scrivere il disco di M+A e, contemporaneamente, stavamo facendo anche robe nuove, completamente a caso. Ci siamo subito accorti che queste ultime erano totalmente diverse dal mondo di M+A. Quando ci siamo trovati con i provini, abbiamo preferito distruggere il vecchio progetto piuttosto che mantenerlo. Cambiamo molto spesso e che ci piace sperimentare, abbiamo voluto evitare il pericolo del «sto quattro anni in studio a fare il concept», che poi non è mai vera vita.
È molto interessante il fatto che, nel momento in cui avete realizzato di star creando con Santii qualcosa di così diverso, non siate entrati in crisi, ma avete avuto la forza di stravolgere tutto e ripartire da zero. Avete mai pensato di non farcela?
Sì, costantemente. Però credo che questa filosofia appartenga proprio alla nostra natura e al nostro progetto artistico in sé. C’è sempre una componente di instabilità, un salto che devi fare quando fai un disco che ti fa capire anche le risposte alle domande che avevi prima. Sei costantemente in quel mood, tipo: «Cosa faccio? E ora che succede?».
Com’è presentare al pubblico Santii, il vostro nuovo progetto?
Un po’ difficile, onestamente (ridono entrambi, NdR). Negli ultimi anni si è formata una distinzione molto importante tra il cantato in inglese e quello in italiano per quanto riguarda l’aspetto comunicativo. Oggi se canti in italiano il pubblico recepisce immediatamente, qualche tempo fa succedeva molto meno. C’è un po’ di distanza inevitabile a causa del fattore linguistico e anche un po’ perché, obiettivamente, molte persone ci capitano così, completamente random: magari alcuni non sanno nemmeno della nostra vecchia vita, del cambio di nome.
Nell’album non ci sono collaborazioni in italiano: avete mai pensato a fare qualcosa in quel senso?
Avevamo provato ad inserire delle parti in italiano con dei featuring. Abbiamo chiesto ad Elisa e a Tiziano Ferro perché sono legati a Sugar. Tiziano Ferro non ha neanche ascoltato (ridono, NdR), Elisa ha detto che ci avrebbe pensato, ma alla fine niente… Potendo scegliere con cui collaborare, chiameremmo a Tiziano Ferro di nuovo (ridono, NdR)! L’idea, quando li abbiamo approcciati, era di fargli cantare dei pezzi che non c’entrassero niente con il loro stile. Volevamo provare a realizzare quello che sono riusciti a fare in Francia, cioè collegare i testi in inglese con la loro cultura.
Qual è stata la collaborazione più complicata tra quelle che avete portato a casa?
Sicuramente con Reijje Snow. L’aveva contattato Alex su Facebook, prima che lui firmasse con la sua label e che iniziasse a lavorare al suo disco. All’inizio è stato tutto davvero super friendly: noi mandavamo a tutti delle cartelle con dei file audio, anche tipo di 30 secondi, quindi avevano proprio libertà massima di fare quello che volevano. Lui diede l’ok e ci mandò il provino subito la settimana dopo. Dal provino alla take effettiva registrata in studio a Londra, però, poi sono passati sette mesi: nel frattempo aveva firmato l’esclusiva con l’etichetta, cosa che ha fatto allungare i tempi. Essendo un tipo molto easy, non aveva ben gestito delle cose legali e c’era appunto il problema delle esclusive. Comunque abbiamo contattato personalmente tutti gli artisti per scelta, era una sorta di preselezione: se ci rispondevano significava che erano effettivamente interessati. Poi, prima di chiudere la cosa i rispettivi manager trovavano un accordo, ma volevamo proprio che il primo contatto fosse attraverso la musica. Chiaramente molti non visualizzavano, altri rispondevano «volentieri, ma questo è il mio prezzo», prima ancora di ascoltare, altri ancora ti scrivevano qualcosa tipo «bello, mi piace questo pezzo», e da lì si andava avanti.
Come nasce la vostra estetica e, soprattutto, la vostra copertina? È legata a qualcosa in particolare?
La visione estetica è proprio legata a come noi due vediamo il mondo, non abbiamo avuto influenze dirette. Per quanto riguarda la copertina, abbiamo fatto mille prove perché ci eravamo un po’ stufati della copertina con il pattern grafico. Ultimamente va questa moda per cui chi usa solo grafica fa per forza techno o comunque roba d’avanguardia, invece chi fa pop ci mette la faccia in copertina: visto che noi eravamo abbastanza borderline e volevamo mantenere un taglio più pop, abbiamo optato per questa roba più simpatica rispetto ad altre scelte che magari possono passare da intellettuali.
Alex, quanto ti ha influenzato nella musica il tuo lavoro come grafico?
Quando è partito il progetto la cura del lato estetico era un compito di entrambi, che con il passare del tempo questa cosa ha preso più piede del dovuto… Sembra sempre che curiamo l’estetica e tutto quanto, quando in realtà abbiamo sempre avuto l’impressione che fosse il contrario. Noi facciamo il minimo per fare una cosa che artisticamente abbia un perché, sono gli altri che non fanno manco quello! A volte volutamente lascio fuori cose che, graficamente, sarebbero un po’ too much, un po’ troppo studiate, perché poi nelle interviste cominciano ad uscire domande tipo: «Ma cosa vuol dire quella cosa lì?», che, per carità, fa piacere che la gente la noti, però non deve diventare il focus. Spesso capitava con M+A che cose messe lì quasi per caso fossero poi osannate, tra l’altro in maniera insensata… Anche perché graficamente non erano niente di che.
Cosa ascoltate ultimamente?
Molta roba da chitarra acustica adolescenziale, sono cose che non ascoltiamo sperando in un ritorno (ridono, NdR), ma giusto perché si distaccano dalla moda, dalla musica che “bisogna” ascoltare. Spesso quando ascoltiamo musica facciamo fatica a farcela piacere. Ci piace roba vecchia, tipo jazz anni Settanta. Ascoltiamo anche cose attuali, ma più che altro perché fa parte del nostro lavoro. Uno degli ultimi artisti che continuiamo ad ascoltare è Russ, e come lui altri artisti che, oltre alla musica e al beat hanno un approccio al sound che ci piace.
Quando avete deciso di cambiare era anche un momento in cui avevate stravolto quello che facevate e ascoltavate, oppure è cambiato involontariamente?
Era già cambiato tutto da un po’. Con M+A le cose stavano andando avanti, ma noi eravamo già in fase di cambiamento anche per quanto riguarda gli ascolti… Però a volte ti trovi in situazioni in cui fai cose perché ti sono richieste. Quando ci siamo resi conto che era il momento di uscirne, la testa era già da un’altra parte.
Siamo state a Home Festival, che è uno dei pochi festival in cui nella line up si leggono anche nomi internazionali. Come credete sia, oggi, andare ad un festival in Italia rispetto ad uno all’estero?
Negli ultimi anni si è palesata una differenza abissale nella domanda del pubblico tra italiano ed estero; forse anche per motivi di mercato, in Italia siamo meno preparati ad accogliere domande diverse. All’estero, non solo ai festival, capitano spot in cui ti becchi cose tipo J-Pop – bellissimo tra l’altro – e i Black Lips, per farti un esempio. In Italia, soprattutto in quest’ultimo periodo, nel vuoto che c’è a livello proprio comunitario, si punta ad individuare un target specifico di persone ed è una cosa che cambia veramente tutto.
Un ingrediente che portereste dall’estero nel mercato italiano, a livello di festival e discografia?
Il concerto di Vasco Rossi ha fatto dei numeri, a livello di pubblico pagante, paragonabile a quelli di artisti tipo Kendrick Lamar. È stranissimo, in Italia sembra esserci una sorta di bolla che produce comunque del denaro, però – e questa è la nostra fissa – non si sa come e quanto entri veramente nella storia. Probabilmente è anche una cosa legata al periodo storico: quando abbiamo iniziato a fare concerti pensavamo fosse un problema a livello musicale, solite cose, tipo: «l’Italia ancora non ci arriva», ma in realtà quando vedi le cose che succedono storicamente capisci che è semplicemente lo specchio della società. Poi è una cosa che va a cicli: bisogna essere abituati anche a non prendersi troppo sul serio. Per esempio, quando abbiamo cambiato il nome sembrava essersi creato il delirio, del tipo: «Ma che cazzo stiamo facendo?”, ma noi due lo facciamo proprio per sperimentare, nel vero senso della parola, non solo a livello di genere. O rispondi allo stimolo, quindi sperimenti e ti diverti consapevole del fatto che può andare male, oppure no.
Ultimo festival a cui siete andati e uno a cui vorreste andare? Sia come artisti, sia come spettatori.
L’ultimo a cui abbiamo suonato è stato Home Festival e il prossimo in cui vorremmo suonare… mi verrebbe da dire Coachella (ridono, NdR). Però forse più che festival preferirei un club, tipo dei Bohren & Der Club of Gore, lì devono avere una botta allucinante. Insomma, odiamo i festival! Questa cosa del «facciamo party!» e poi in realtà non si capisce un cazzo (ridono, NdR). A meno che non te lo vivi in modo diverso, tipo che ci resti una settimana. Noi abbiamo fatto Glastonbury: ci ha tramortito così tanto, un trauma. Pioggia continua, fango e letame ovunque, c’erano talmente tanti palchi che sembrava una città federata. Da un lato le urla di Yoko Ono, dall’altro gli schiamazzi dell’altro concerto in contemporanea. È questo che non sopportiamo dei festival. Poi l’acustica lascia a desiderare e anche le tempistiche: non riesci mai a vederti un artista per bene perché o stai sotto al palco un giorno intero e ti vedi solo lui, oppure ti fai le vasche per vederne di più, ma non ha senso. Personalmente, suonando, quando andiamo ai concerti ci sentiamo un po’ come un cuoco che va a mangiare al ristorante. Però un concerto che non vogliamo perdere è quello del 2 novembre, a Milano, di Kamaal Williams: ecco, quello ve lo consigliamo.
Voi avete un rapporto con i social estremamente pacifico, basic…
Esatto. Infatti non funziona più (ridono, NdR). Questo non aiuta il progetto musicale, in realtà, analizzando le leggi di mercato non sarebbe la cosa migliore da fare.
Non la cambierete questa attitudine però…
In realtà, dopo dieci anni che suoniamo insieme, c’è un grande vaso di Pandora che non abbiamo mai aperto e che, se un giorno apriremo, scatenerà il delirio! Noi ci siamo sempre molto trattenuti, su ogni livello. Quando abbiamo davanti una scelta, che sia una grafica di un pezzo o una strategia di marketing, pensiamo sempre che la scelta più ovvia sia quella sbagliata. Anche quando una cosa ci viene particolarmente facile, pensiamo «beh, se ci viene così semplice, possiamo fare di meglio!» e abbiamo perennemente sbagliato. Non perennemente, però ci siamo resi conto che, anche se una cosa ti viene subito e in maniera semplice, non significa che non sia quella giusta.
Insomma, siete dei perfezionisti.
Ecco, questa cosa qui non è una cosa di cui vantarsi. Se non la sai sfruttare bene ti limita. Devi essere abbastanza stupido da riuscire a sfruttare le doti che hai: se ci pensi troppo diventa semplicemente overthinking. Per noi è diventata quasi più una questione di sperimentazione esistenziale che musicale.
Consigliateci tre pezzi da mandare in radio!
2006 di Skizzy Mars e poi vi spiazziamo con un pezzo anni Sessanta: Movin Away di My Morning Jacket. Di nostro forse quella con Cakes, Ma in realtà potete scegliere voi!
FUTURA 1993
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