AD ASTRA E L’ODISSEA SPAZIALE DI BRAD PITT
Ad Astra, dopo essere stato in concorso durante l’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia, è la space opera di James Gray (C’era una volta a New York, Civiltà Perduta) che si prepara ad approdare, tra critiche e consensi, nelle sale italiane dal 26 settembre
di Davide Colli
Ad Astra risulta, ben presto dall’inizio del film, un prodotto atipico in un sottogenere della fantascienza di cui ogni anno ormai se ne presenta un esponente nelle sale cinematografiche di tutto il mondo. Totalmente controtendenza, sembra quasi abbandonare le pretese di esattezza scientifica alla quale film di recente uscita come Gravity e Interstellar puntavano in maniera palese. L’interesse di James Gray si focalizza, invece, sul raccontare la storia di un uomo , il cosmonauta Roy McBride (Brad Pitt) e la Storia dell’uomo nei suoi processi storici.
Queste due narrazioni non proseguono parallelamente in Ad Astra, bensì si intrecciano di continuo: durante la sua missione, McBride ripercorrerà le tappe che hanno permesso all’umanità di arrivare alla tappa conclusiva, identificata da Gray in un immaginario che prende a piene mani dall’operato di Ray Bradbury, nel quale l’uomo ha ritrovato la sua insita sete colonizzatrice e si è espanso per tutta la galassia. Tuttavia, Ad Astra si dimostra anche un viaggio attraverso gli stadi evolutivi del genere di fantascienza e in tutte le sue declinazioni, simboleggiato, per esempio, dallo spiacevole incontro con un gruppo di predoni lunari, in una corsa vitale che richiama fortemente il recente Mad Max Fury Road, oltre che a confermare il modus operandi di eterno ritorno che la Storia inevitabilmente si ostina a ripetere.
Il tema che, però, sembra essere, ancora una volta nella filmografia di Gray, la colonna portante dell’intera opera risiede nel rapporto padre-figlio, in questo particolare caso tra Clifford McBride (Tommy Lee Jones), di cui si sono perse le tracce 16 anni prima, in seguito a una vecchia missione di cui era capitano, e il figlio Roy. Il tentativo di riconnessione col padre rappresenta la motivazione esistenziale contenuta in questo viaggio spaziale: sulla Terra si presenta come un essere umano fallimentare perché privo di una qualsivoglia guida che non sia il comando dello Stato americano, che lo sfrutta con meri scopi utilitaristici, mentre è in grado di liberarsi dall’alone di fallimento che lo avvolge solo nell’ignoto spaziale, seguendo le orme professionali del suo vecchio, che invece si identifica perfettamente in un Ulisse sconfitto, come il figlio anche lui fuori posto in una società sempre più con derive espansionistiche.
James Gray si serve in Ad Astra delle sue potentissime immagini per schiacciare lo spettatore e comunicare lo stato di disadattamento di questi due personaggi, che, per motivi differenti, sono costretti a confrontarsi tra loro e con le loro rispettive solitudini, in modo tale da poter ricavare una chiara visione di quello che sarà il loro rispettivo destino.
Nella foto in alto: Brad Pitt in ‘Ad Astra’, foto di Francois Duhamel
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