SHA RIBEIRO – SECONDO PASSIONE
Da Marracash e Guè Pequeno in giù, ha fotografato tutta la scena rap italiana. Ma, dal passato nella moda ai ritratti underground, i suoi scatti rappresentano molto di più: la voglia di lasciare qualcosa agli altri e di raccontare qualcosa di sé, di guardare al lavoro svolto con orgoglio e senza rimpianti
di Simone Zeni
Non c’è esponente della scena hip hop nazionale che non sia stato immortalato da suo obiettivo, qualunque rapper esordiente conosce il suo nome e sa che avere un suo ritratto significa andare nella direzione giusta. Sha Ribeiro, nato a Lisbona ma cresciuto a Milano, fotografa con appassionata crudezza un mondo underground che ben conosce e a cui sa restituire umanità. Tanto da essere inserito da Complex, nel 2014, tra i migliori dieci fotografi street al mondo. Ecco cosa ci ha raccontato.
Qual è il percorso che ti ha portato a lavorare come fotografo?
Effettivamente non era in programma. Anni fa stavo cercando lavoro, per una serie di coincidenze, ho iniziato a lavorare come assistente fotografo nel campo della moda. Non ho frequentato una scuola di fotografia ma ho svolto quel ruolo per quattro anni, facendo molta pratica. A un certo punto la necessità di volere di più, di lavorare su qualcosa che mi assomigliasse e appassionasse maggiormente si fece impellente e decisi, contro il parere di molti, di abbandonare una strada tutto sommato remunerativa per avvicinarmi al mondo delle culture giovanili, quindi inevitabilmente anche della musica.
E perché proprio il rap?
I miei progetti non sono necessariamente legati alla musica – tra i miei primi lavori ricordo un reportage tra i ghetti di Lisbona – ma il mio background e il mio gusto personale hanno reso questo incontro inevitabile e mi sono ritrovato a Londra a raccontare la musica grime. Io ho sempre ascoltato rap e proprio per quella volontà di andare verso qualcosa che mi rimanesse, mi sono avvicinato a questa mia passione. Ho avuto un ottimo riscontro, capivo che il mio linguaggio visivo piaceva e piace ancor di più negli ultimi anni, sposando le richieste commerciali di un momento storico in cui i rapper sono i nuovi divi.
Oltre alla musica, cos’ha influenzato il tuo immaginario?
Non credo ci sia qualcosa di specifico: sicuramente, oltre ai suoni, le riviste e le pubblicità degli anni Ottanta hanno avuto una forte influenza su di me. Sono però convinto ci sia una forte componente d’istintività in ciò che si decide di fotografare, qualcosa che fa emergere ciò che sei veramente indipendentemente da tutto.
E fotografi che ti sono stati d’ispirazione?
Come dicevo, credo che molto facciano il gusto e l’esperienza personale, quindi non ho un nome da evidenziare più di altri. Senza dubbio ho molta ammirazione per il lavoro dei grandi fotografi attivi in quegli anni per me fondamentali. Se penso alle eccellenze nel campo della fotografia penso ad Annie Leibovitz, Richard Avedon, Helmut Newton, non ai nome emersi più recentemente.
Sei nato a Lisbona ma hai sempre vissuto a Milano, come ti trovi in questa città?
Oggi come oggi devo dire molto bene! Certo, Milano, dal punto di vista del mio lavoro, può talvolta avere dei limiti di budget, ma dopo Expo 2015 la vedo molto cambiata. Sono cresciuto avendo con questa città un rapporto molto conflittuale, ma negli ultimi due o tre anni ne apprezzo ogni trasformazione, posso dire di averci fatto la pace. Mi capita spesso di lavorare all’estero ma non vorrei vivere da nessun’altra parte.
Guè Pequeno, Fabri Fibra, Marracash, Ensi, Clementino, Sfera Ebbasta: sono pochi quelli che non hanno ancora uno scatto di Sha Ribeiro. Lo scorso giugno hai seguito l’edizione italiana del Red Bull Culture Clash fotografando tutte le crew. Com’è stata quell’esperienza?
Per il Red Bull Culture Clash ho seguito l’immagine e la comunicazione prima dell’evento, successivamente mi è stata data carta bianca per raccontarlo con le mie foto. Ho pensato di andare oltre i ritratti, optando per un reportage in bianco e nero delle sfide e dell’ambiente. Il maggior problema del rap oggi è che gran parte delle decisioni sono dettate dal business, ma non in quell’occasione dove hanno rappato come una volta. È stata un’esperienza decisamente genuina.
Oggi come vedi il mondo della moda?
Mi capita ancora di lavorarci ma è una parte di un lavoro che considero ben più sfaccettato. Per potersi definire fotografo di moda bisogna dedicarcisi al 100%, tanto dal punto di vista del lavoro pratico, quanto da quello delle pubbliche relazioni. Io mi sono allontanato tempo fa e sono felice della mia scelta: non è una fotografia che disprezzo, si possono realizzare bei lavori e nell’ambiente girano ottimi professionisti, semplicemente la considero un po’ futile. Se mi guardo indietro, all’archivio realizzato finora, sento di avere qualcosa di importante che non avrei potuto possedere altrimenti.
Prossimi progetti fotografici?
Ora ho due figli, è normale che dia priorità al lavoro e tenda ad accantonare la passione pura, ma è una cosa che ogni tanto mi rimprovero. C’è un progetto molto personale a cui sto pensando da tempo e che mi sono ripromesso di realizzare, ma è una cosa che va studiata bene e di cui non vorrei parlare finché non sarà maggiormente definita. Sicuramente ho intenzione di aumentare i giri all’estero, alla ricerca di qualche lavoro nuovo, stimolante. Creare nuovi contatti insomma, ma sempre con Milano come base.
Originariamente pubblicato su WU 82 (ottobre 2015). Segui Simone su Facebook
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