GIORGIENESS – NELLA STESSA DIREZIONE
Secondo disco per il gruppo di Giorgia D’Eraclea che, con Siamo Tutti Stanchi, mostra un’evoluzione del modo di scrivere rispetto al debut album La giusta distanza. Dopo qualche data di warm up, la band sarà in tour da dicembre in tutta Italia
di Enrico S. Benincasa
Dal palco ci sono scesi veramente poco, giusto il tempo di fare un altro disco. Dall’uscita di La Giusta Distanza nella primavera del 2016 sono passati circa una ventina di mesi, periodo in cui i Giorgieness hanno messo piede in tutti i club d’Italia e hanno avuto l’occasione di aprire le date italiane dei Garbage e degli American Football. Il tutto senza smettere di lavorare a quello che sarebbe stato il volto futuro della band ovvero Siamo tutti stanchi, uscito lo scorso 20 ottobre per Woodworm. Un secondo album che ha suoni e testi diversi rispetto al primo, ma che si distingue per una compattezza percepibile in tutti i suoi dieci brani. Di questa compattezza ne abbiamo parlato con Giorgia D’Eraclea, pronta a tornare sul palco con Davide Lasala (chitarra), Andrea De Poi (basso) e Lou Capozzi (batteria) a dicembre (il 16, Santeria Social Club a Milano) e gennaio (Mantova, Roma, Teramo e Firenze).
Come sono andate le prime date di warm up?
Bene! Stiamo sistemando un po’ il live, perché puoi fare tutte le prove che vuoi, ma ti accorgi di cosa funziona e cosa no solo quando vai sul palco. La prima l’abbiamo fatta alla Latteria Molloy, una settimana prima che uscisse il disco. Abbiamo suonato otto pezzi del nuovo lavoro, quasi tutto in pratica, e dal pubblico abbiamo avuto ottimi feedback.
Dall’uscita di La Giusta Distanza – il primo album dei Giorgieness – a oggi siete stati sempre in tour. Quante date avete fatto?
Circa 90. Qualche tempo fa mi sono messa a fare il conto dei concerti che abbiamo fatto con il nome Giorgieness, cominciando dalle prime in acustico del 2011. È venuto fuori un “numerone”.
E te le ricordi tutte?
Diciamo che quando incontro qualcuno e mi dice: «Ti ho visto quella sera a…», mi basta qualche dettaglio per ricordarmi quella serata.
C’è un posto particolare dove ti piace suonare?
Più che un club, mi sono trovata molto bene a suonare in Veneto e Campania. Le date più belle, quelle più divertenti, le abbiamo fatte in queste due regioni. Poi è sempre bello suonare in casa, a Milano. Ricordo con piacere i concerti alla Santeria e al Serraglio, quando il primo disco non era ancora uscito e non avevamo aspettative a livello di pubblico.
È stata una necessità fare due dischi così vicini?
È stata una cosa che abbiamo voluto provare a fare. Ci siamo detti: «Se a settembre abbiamo un disco, lo facciamo uscire». Il primo album ha il suono che volevo quando fondai il progetto Giorgieness nel 2011. In questo caso non volevamo fare un “secondo primo disco”, abbiamo cercato un’evoluzione. Per un lungo periodo, poi, ho avuto un blocco. Quando mi sono sbloccata e ho capito cosa volevo dire, le canzoni sono uscite naturalmente e il suono era quello a cui stavamo già lavorando. Anche Davide (Lasala, chitarrista della band e produttore, NdR) è stato contento di come ci siamo sviluppati. Io ci metto la fantasia e le viscere, lui decide in che macchinari farle passare. È stato un lavoro di squadra, ancora di più rispetto a La giusta distanza. Le litigate grosse, poi, ce le siamo già fatte lavorando al primo disco (ride, NdR). Siamo stati bravi a farlo nei tempi che ci eravamo prefissati e penso che questo disco avrà una vita un po’ più lunga.
Come scrivi? Melodia e testo nascono sempre insieme?
Nasce tutto da un concetto forte che torna nella scrittura in prosa e nei miei pensieri. A quel punto capisco cosa voglio dire e prendo la chitarra in mano. Ma è un concetto un po’ complesso: se adesso prendessi una chitarra in mano difficilmente uscirebbe qualcosa se non di già “masticato”. Alle volte parto da un punto e poi arrivo da tutt’altra parte. Che cosa resta era una ballatona triste, poi le ho dato un altro piglio. Mya è nata da una melodia ed è venuta fuori tutto insieme, musica e testo. Vecchi è stata tre canzoni prima di diventare la versione finale pubblicata su disco. Calamite parte da un’idea che avevo messo giù anni fa, che giocava con l’assonanza tra «sei sei sei» e «sai sai sai» e da una parola molto usata nella musica italiana, «ancora». L’avevo risentita per caso e da lì sono partita.
Registri sempre tutto?
Sì, ma non riascolto quasi mai niente. Il pezzo da cui è nato Calamite l’ho riscoperto facendo un backup del computer, ho trovato la cartella con i le delle vecchie canzoni e ho passato un pomeriggio a riascoltarle. Quello che salvo sul telefono, per esempio, difficilmente lo riascolto. Poi mi è capitato anche di perderlo, ci saranno stati dentro tre o quattro album (ride, NdR).
L’ultima volta che ti avevo intervistato mi avevi detto che ti divertivi a scrivere canzoni con il synth. Lo fai ancora?
Sì, ho portato qualche provino registrato con suoni più elettronici. Poi insieme agli altri ci siamo detti: «Come li portiamo questi suoni sul palco?». Abbiamo quindi tenuto solo cose che possiamo ricreare in altro modo con gli effetti per chitarra e per basso. Ma non è escluso che prima o poi arrivi una tastiera sul palco.
L’unità su cui si fonda il “progetto” Giorgieness è percepibile anche in questo disco. Da cosa deriva e quanto è importante per voi?
Credo che sia dovuto al bel sodalizio che si è creato con Davide e con tutti quelli che lavorano con noi. Ci siamo impegnati per capire assieme cosa vogliamo fare e dove vogliamo andare. Il fatto che tutti remino nella stessa direzione porta a essere compatti ed è bello che si noti anche da fuori.
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