VENERUS – NON GIUDICARTI, ABBI PAZIENZA E SPERIMENTA
Venerus ha stupito tutti con il suo EP ‘A che punto è la notte’ uscito lo scorso autunno per Asian Fake. Lo abbiamo incontrato (e fotografato) al Rocket Bar di Milano
di Alessandra Lanza
Sul palco canta con gli occhi chiusi dietro una maschera, mentre accarezza la tastiera o le corde di una chitarra, accompagnato da sax, basi e batteria, per far rivivere i brani con cui si è presentato meno di un anno fa al mondo. Andrea Venerus ha 26 anni ed è nato e cresciuto in zona San Siro a Milano, la città in cui è tornato a vivere dopo cinque anni di studi musicali a Londra (che hanno plasmato il suo sound tra soul, jazz ed elettronica, un lavoro di pieni e vuoti degno di uno scultore), due anni a Roma e un EP, A che punto è la notte, uscito per Asian Fake lo scorso novembre e che ora sta portando in tour. E no, Venerus non è un ricercato nome d’arte, ma il suo vero cognome, di origini friulane. «In realtà si dovrebbe pronunciare con l’accento sulla u, ma essendo nato a Milano lo pronuncio Venérus».
I tuoi sono contenti che tu sia rientrato?
Mia mamma soprattutto. Pensava che ci saremmo visti tantissimo, ma poi sono sempre in studio da Mace (uno dei suoi produttori, NdR) o in giro.
E tu sei contento di essere tornato?
Molto! A un certo punto ha iniziato a starmi sul cazzo l’idea di dover fare qualcosa di rilevante da un’altra parte. Tornare è una sfida molto più stimolante di fare cose fighe a Londra, dove migliaia di persone ne fanno di ancora più fighe. Non è un discorso nazionalista, ma per me è importante fare musica nella città in cui sono nato. Londra è più avanti, dal punto di vista musicale e sociale, è facile fare qualsiasi cosa. A Milano ancora no, e la cosa mi piace.
Desideravi da tanto andare a Londra?
Ho deciso all’ultimo, due mesi prima di partire. Ho sempre avuto passioni diverse, sapevo di voler far musica nella vita ma non conoscevo nessuno che lo facesse e non avevo idea di cosa volesse dire intraprendere quel percorso. Ho detto a mio padre: «Potrei studiare lettere, mi piace leggere». Mi ha risposto: «Se è la musica quello che ti interessa, vai a fare musica». Mi ha fatto capire che potevo effettivamente dedicarmici, per questo è andata bene. I miei sono due ingegneri, non era scontato il supporto.
Massimo supporto?
Diciamo che nel mondo moderno, quando diventa anche economico, è massimo supporto. E sicuramente c’è stato anche un supporto di tipo morale. Prima che comunque capissero che stavo facendo qualcosa di utile per me, per la mia vita e per gli altri, ce n’è voluto eh…
Quando sei partito avevi l’idea che prima o poi saresti tornato?
Zero. Ho proiezioni del mio futuro a lungo termine, so cosa mi interesserebbe fare, ma non riesco a fare piani per la mia vita, ma non mi preoccupa: io vado, le cose le faccio più o meno succedere, interagisco bene con le situazioni, è sempre stato tutto molto naturale.
Eri tornato a Roma per registrare un album. Cosa ti ha fatto rimanere?
Ero iscritto a un master di Etnomusicologia a Londra e volevo registrare il disco che avevo scritto. Avevo degli amici con lo studio a Roma – e l’idea di venirci a giugno dopo cinque anni in Inghilterra non era male… Ho dedicato 10 giorni interi al mio lavoro, con musicisti bravi, si era creata una situazione interessante e stavo da dio. Finito il disco avevo l’energia vitale a mille e una volta tornato a Londra mi sono detto: ma che ci faccio qua? Avevo appena fatto qualcosa che dovevo continuare a indagare.
Ti manca?
Sono una persona malinconica. Mi manca in senso costruttivo, nel senso che spesso mi tornano in mente situazioni, immagini, cose che ho vissuto, che sono state importanti per me, però non preferirei stare là, altrimenti ci tornerei. Mi manca e non mi manca.
Al di là della formazione e della musica che ti ha fatto conoscere, cosa ti ha insegnato?
A stare da solo. A non giudicarmi. L’altra sera ero a lezione di yoga con mia madre e l’insegnante ha detto una frase che riassume la filosofia che ho sviluppato negli anni e che mi ha insegnato Londra: «Non giudicarti, abbi pazienza e sperimenta». Cioè: non aver paura di capire cosa ti interessa fare, chi sei, cosa ti piace. Abbi pazienza, perché per fare le cose bene ci vuole tempo, e sperimenta, vai, fai duemila cose: a un certo punto troverai davvero quella che ti piace e potrai dire che ne è valsa la pena.
Da piccolo i tuoi ti hanno fatto ascoltare tanta musica. Questi ascolti ti hanno plasmato o sei tu che riconosci, in qualche modo, che qualcosa ti appartiene?
Si impara ad ascoltare sulla base di ciò che si ascolta da piccoli. Ne parlavo oggi con il mio migliore amico, seizeri, dicevo che è incredibile che, ogni volta che mi confronto coi miei genitori, li tratto un po’ male, scocciato anche senza motivo, e lui mi diceva: si impara a trattare i genitori da piccoli. Credo sia così anche col resto. Se hai la fortuna di avere persone che ti fanno ascoltare cose belle, impari che la musica è una cosa bella. Se hai la fortuna di avvicinarti al “bello” quando inizi ad ascoltare musica, in te si creerà un solco che le cose brutte non riusciranno a riempire.
Quanto sei critico sul tuo lavoro e quanto sei soddisfatto di quello che è uscito?
Tornando alla frase di prima, quella del «non giudicarti…», sono molto critico con me stesso ma non bacchettone. Ho momenti in cui vorrei distruggere quello che ho fatto perché sono molto emotivo nel modo in cui scrivo e penso. In questo ultimo anno, però, per la prima volta da quando ho iniziato a dedicarmi alla mia musica, mi è capitato di fare qualcosa e dire: «Ma che bomba è? Com’è uscita da me?», con un po’ di stupore. Poi ovviamente la musica esce, la gente l’ascolta e ti dice che ne pensa. Ho avuto prevalentemente riscontri positivi, mi fa piacere, ma non è l’ago della bilancia: ho sempre fatto musica perché volevo farla per me, non per gli altri. Se finisse il mio interesse naturale non la farei più, farei il latitante. Ci sono poche persone la cui opinione può influenzarmi davvero: se il mio migliore amico è preso bene per la mia musica, può anche far cagare al resto del mondo, non mi interessa, lui mi conosce meglio di chiunque altro. Passo molto tempo con le persone a cui tengo di più e su queste cose ricevo un sacco di sostegno. Ho un buon rapporto quindi con il mio lavoro, anche se a volte sono preoccupato. Ho dei momenti un po’ vuoti, in cui devo isolarmi. Lo faccio, e le cose escono.
Credi nelle muse? Quanto contano nella scrittura?
Ci credo e ne ho avute nella mia vita, anche in questo momento una figura femminile che mi fa scrivere tanta musica perché mi fa vivere situazioni emotivamente belle e intense. La mia musica parla di me e, se sono innamorato, parlerà anche della persona di cui sono innamorato. Quando ero a Londra ho trovato per caso il quadro di una figura maschile un po’ strana, una sorta di spirito tutto truccato. Da allora l’ho sempre portato con me, in tutti i posti in cui scrivo e ho vissuto. L’ho chiamato “il muso”, perché è una figura maschile che esteticamente racchiude qualcosa che mi corrisponde un sacco, a cui non chiedo di ispirarmi, ma in cui comunque mi riconosco, senza sapere bene il perché. Mi piace averlo lì, ci credo davvero un sacco in queste cose.
Ti fai le pare?
Di brutto. Vivo molto intensamente i miei switch emotivi, che si fanno sentire senza chiedere il permesso. Ma sono anche una persona molto positiva. Quello che faccio mi dà un sacco di energia, quindi sono sempre cose che affronto: arriva la para, la vivo a pieno, e finisce che mi porta da qualche altra parte.
Questo ti influenza nella scrittura?
Tantissimo. La cosa bella è che da quando ho iniziato a far uscire la musica mi ritrovo con una sorta di diario emotivo per cui dico: ad aprile dell’anno scorso stavo così, e così via.
La notte è un momento distintivo per l’ultimo EP o in generale per la tua musica?
Sicuramente lo è stata tanto per il primo EP, perché ho avuto un periodo in cui stavo sveglio tutta la notte. Adesso sono un po’ uscito da questo loop, e ho iniziato a pensare anche ad altro. In questo momento mi piace di brutto, ma non è un’ossessione a livello intellettuale.
Stai scrivendo roba nuova? Ti stai rinnovando?
Un botto. È sempre Vinnie che scrive di giorno e di notte. Mi sto rinnovando, altrimenti l’avrei già fatta uscire. Sinceramente non voglio essere ossessivo sui concetti. La notte è magica, ma non necessariamente solo notte.
C’è qualcosa che non farai mai?
(dal camerino del Circolo Ohibò, poco prima di iniziare il live, un amico suggerisce: «un feat con uno stronzo»)
Venerus: Esatto, un feat con uno stronzo.
Gemitaiz (lì presente): un feat con un coglione già l’hai fatto, con me!
Intervista di Venerus è stata pubblicata su WU 95 (aprile – maggio 2019). Segui Alessandra Lanza su Instagram e Linkedin
Tutte le foto di Venerus sono state scattate al Rocket Bar, ripa di Porta Ticinese 93 a Milano
La foto in alto di Venerus è di Fabio Bozzetti, style Greta Fumagalli, style assistant Allegra Silva; Venerus indossa shirt jacket e gilet di Andrea Pompilio
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