SAVE THE DUCK – QUELLO CHE NON C’ERA
Sostenibilità è un sostantivo che è entrato prepotentemente nel vocabolario del mondo dell’abbigliamento. È un processo non solo di linguaggio che è tangibile negli ultimi anni, ma c’è anche chi ha cominciato prima come Nicolas Bargi di Save The Duck
di Enrico S. Benincasa
Un brand che va dritto al punto sin dal suo nome, uno di quelli che non lascia spazio a dubbi. In otto anni dalla sua nascita, Save The Duck, partendo dalla voglia di creare un prodotto animal free, ha ampliato il suo raggio d’azione diventando un esempio di sostenibilità a 360 gradi. Protagonista di questo cammino è Nicolas Bargi, fondatore e amministratore delegato che ha creduto nell’esistenza di un pubblico che non erano in molti a scorgere. Non è stato l’unico a crederci – «è stato importantissimo anche il lavoro di Marina Salamon prima, socia dal 2014 al 2017, e di Progressio Sgr, oggi azionista di maggioranza», ci ha detto – ma è la costante della storia di questo brand, argomento da cui cominciamo questa intervista.
Save the Duck è un brand nato nel 2012. Quali sono state le tappe fondamentali di questo percorso quasi decennale?
Tutto nasce proprio otto anni fa, quando ristrutturo la mia azienda di famiglia (la Forest, NdR) e la rilancio con questo brand animal free e sostenibile. Siamo partiti con il non usare piume d’oca e poi, grazie anche a una partnership con WWF, dal secondo anno di vita abbiamo iniziato un percorso che ci ha aiutato a rispettare tutti gli standard per essere cruelty free. Poi abbiamo lavorato sul rendere sempre più ecologico il nostro prodotto, sia in termini di processi, sia per quanto riguarda i materiali e l’attenzione ai lavoratori. Così siamo arrivati a essere la prima B Corp del settore fashion italiano. Da marzo di quest’anno aderiamo anche al programma Global Compact delle Nazioni Unite, cosa che rende Save The Duck una benefit company, cioè una realtà aziendale che, tra i suoi scopi, ha anche quello di creare valore sociale in differenti ambiti.
Oggi di sostenibilità si parla spesso, ma quando avete iniziato non era certamente così. Quali sono stati gli aspetti su cui avete puntato di più?
La sostenibilità è un percorso lungo. I primi anni non era semplice capire certi aspetti e, ancora oggi, imparo qualcosa di nuovo ogni giorno. Senza dubbio abbiamo puntato molto sulla tracciabilità dei materiali, sulla trasparenza delle comunicazioni – il nostro è un cliente molto attento, che ama approfondire – e sulla education. È molto importante comunicare bene quello che si fa, non nascondendo dove ancora si deve migliorare.
Sostenibilità è una parola che oggi fa parte del vocabolario del fashion. È un percorso ormai avviato, senza possibilità di tornare indietro?
Sì, le nuove generazioni di consumatori hanno un altro background culturale e devi per forza affrontare il tema, ne va della vita della tua azienda. Le statistiche ci dicono che, già dal triennio 2014-2017, c’è stato un trend di crescita esponenziale di richieste di prodotti sostenibili.
Un capo come il vostro ha dovuto vincere una “barriera culturale” per far passare il messaggio che i tessuti e i materiali di derivazione tecnica non sono inferiori alla piuma d’oca?
Il superamento di questa barriera iniziò negli anni Novanta, quando sul mercato arrivarono tute da sci in materiali sintetici e traspiranti, più performanti e dal peso minore rispetto ai capi classici. Nel comparto fashion non c’era l’esigenza di performare e la piuma dava più la sensazione di calore immediato. L’avvicinamento progressivo di questi due mondi – sportswear e fashion – ha avuto effetti come l’arrivo di queste tecnologie anche per i capi non strettamente dedicati allo sport attivo. Abbiamo anche dimostrato, nel corso della nostra storia, come le tecnologie che utilizziamo siano adatte a situazioni anche estreme, come nel caso della spedizione sull’Everest del 2016 di Kuntal Joisher con uno dei nostri capi.
Nel 2019 Save the Duck è anche insignito da PETA del premio “Company of the Year”. È stata una sorpresa o ve lo aspettavate?
Anche se non è il primo premio o attestato che riceviamo da PETA, è stata senz’altro una bella soddisfazione. È un riconoscimento importantissimo ma anche molto naturale, perché abbiamo una filosofia affine che ci accomuna da tempo.
È un momento particolare per tutti per via della crisi sanitaria. Come vedete il presente e soprattutto il futuro?
Sono fiducioso perché un’azienda come la nostra ha oggi “vento favorevole” per via del cambiamento culturale in atto tra i consumatori. Le riflessioni legate al momento che stiamo vivendo potrebbero anche accelerare certi processi, con una maggiore attenzione a temi come natura e sostenibilità. Abbiamo recentemente aperto un nuovo store a Milano – il nostro quarto flagship, il secondo in città – e sta andando bene, così come l’online. Non è detto che chiuderemo quest’anno con un segno meno ma, anche se fosse, andremo comunque meglio rispetto al trend del settore. Il nostro sarà sempre un approccio prudente, ma ottimista e positivo verso il futuro.
Intervista pubblicata su WU 104 (ottobre-novembre 2020)
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