IL FUTURO DELLA “NON CARNE”
Da quando hanno iniziato a comparire sui nostri scaffali, le alternative plant-based alla carne si sono moltiplicate ed evolute. Il futuro di questi prodotti ha buone prospettive, ma non mancano ostacoli – non solo terminologici – da superare
di Gian Mario Bachetti
In principio furono il tofu e gli hamburger di seitan e di soia. Era il 2010, la crisi dei mutui subprime iniziava a mordere l’Europa e io vivevo con due vegani. Per la prima volta sentivo come motivazione dell’aver scelto di togliere le proteine animali dall’alimentazione il ridurre l’impatto ambientale dei consumi. La domenica era il giorno del ragù vegano con i pezzetti di seitan che sostituivano la carne macinata e la carbonara era con tofu, panna vegetale e zafferano.
Sono passati quasi 15 anni e l’universo delle alternative alla carne si è espanso oltre confini che tempo fa sarebbero sembrati fantascienza: oggi è facilissimo trovare hamburger, polpette e cotolette di soia, seitan, tofu e tempeh in ogni supermercato, ma ad ampliare ancora di più la dieta (e il dibattito pubblico) hanno fatto irruzione nel mercato le carni alternative, prodotti plant-based che però imitano in tutto e per tutto una bistecca o un hamburger, compreso il sanguinamento al taglio.
L’azienda pioniera di questo mercato è Beyond Meat: fondata nel 2009 in California, ha inventato il primo hamburger realizzato con una combinazione di alimenti vegetali pensati come tasselli per ricostruire consistenza e sapore della carne. Nei suoi burger ci sono piselli per l’apporto proteico, barbabietola per il colore, olio di cocco e amido di patate per la componente grassa e succosa. Pochi anni dopo Beyond Meat nasce, sempre in California, Impossible Food che riesce a ricreare addirittura il sangue grazie alla produzione, attraverso un lievito geneticamente modificato, di leghemoglobina, una proteina presente nelle leguminose e ricca di hene, il composto metallorganico cuore dell’emoglobina. Negli anni le aziende produttrici di alternative a base vegetale si sono moltiplicate in tutto il mondo, a testimonianza di un trend (e di un mercato) sempre più ampio: la tedesca Wheaty, la brasiliana Future Farm, l’olandese The Vegetarian Butcher, la svizzera Planted, le nostrane Joy Food e Biolab.
C’è poi un’altra tipologia di carne a base vegetale che viene letteralmente stampata grazie a stampanti 3D. Ricordo bene quando parecchi anni fa durante hackathon, convention e demo day, gli startupper che si alternavano sul palco vestiti come Zuckerberg e con in tasca il santino di Steve Jobs professavano un futuro in cui tutto sarebbe stato stampato: dai vestiti alle case, passando ovviamente per il cibo. Bene, quel futuro è arrivato e il suo artefice è Redefine Meat, azienda israeliana fondata nel 2018 che oggi conta circa 250 dipendenti in tutto il mondo. Ridefinire la carne: le proteine di piselli, noce di cocco, burro di cacao, fecola di patate, lieviti che grazie alla precisione chirurgica delle stampanti 3D riescono ad assumere la struttura delle fibre e del collagene della carne, comprese le striscioline di “grasso”. La texture stampata riproduce così la consistenza di qualsiasi carne: da una salsiccia a un filetto, passando per gli straccetti, un hamburger o un kebab.
Quello che ancora per un po’ però non potremmo assaggiare in Italia è la carne coltivata o sintetica, a seconda della barricata in cui vogliate stare; ma andiamo con ordine. Dieci anni fa, nel 2013, viene presentato alla stampa il primo hamburger realizzato con carne bovina coltivata dall’Università di Maastricht. I costi, secondo l’ateneo, si aggirano tra i 250.000 e i 350.000 euro per il singolo hamburger. La carne era stata prodotta grazie alle cellule staminali presenti tra quelle muscolari, prelevate da un animale con un ago da biopsia, “coltivate” in laboratorio con brodi di cultura e sviluppate grazie a una sollecitazione meccanica.
Ai tempi poteva sembrare una provocazione, ma dieci anni dopo le carni in vitro sono realtà: ci sono oltre 100 startup che stanno coltivando con la stessa ricetta dell’Università di Maastricht, o con sue variazioni, le carni più comuni come manzo, pollo e maiale ma non mancano trovate più estreme come il leone. Al tempo stesso, in molti paesi si sta preparando l’apparato normativo per regolamentarne distribuzione e consumo al pubblico.
Quella sulla carne coltivata non è solo una battaglia commerciale o legislativa in cui si intersecano i più svariati interessi, ma anche – di conseguenza – terminologica. I più feroci oppositori infatti vorrebbero denominarla “da laboratorio”, “artificiale” o “sintetica”, e c’è anche chi vorrebbe bandire l’uso della parola “carne” come è avvenuto per quella “latte” nelle bevande a base di soia, riso o mandorle.
La carne coltivata non è ancora così diffusa (o dif- fondibile) ma le alternative plant-based stanno diventando sempre più comuni, almeno nell’immaginario collettivo e nel dibattito mediatico. Nel 2022 le vendite nel mercato USA hanno subito una frenata, ma nell’anno precedente erano cresciute del 43% e gli analisti sembrano confermare un futuro roseo per questi prodotti: se oggi rappresentano meno dell’1% dei consumi di carne, latte e formaggio, Bloomberg stima che in dieci anni toccheranno il 5% per un va- lore del settore di 24-25 miliardi di dollari.
Articolo pubblicato su WU 122 (novembre 2023)
Nella foto in alto: un burger realizzato con Beyond Meat
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