NON È CERTO UN “MINESTRONE”
Il ramen è uno dei piatti più iconici della cucina giapponese, diventato un vero e proprio simbolo della cultura del Sol Levante anche grazie a film, serie tv e fumetti che ne hanno raccontato filosofia e scienza
di Gian Mario Bachetti
All’inizio del nuovo millennio, il Fuji Research Institute pubblicò i risultati di un’indagine condotta su 2 mila giapponesi a cui era stato chiesto quale fosse secondo loro la più importante invenzione Made in Japan del Ventesimo secolo. Nonostante il Sol Levante abbia la paternità – solo per citarne alcune – di treni ad alta velocità, DVD, walkman e macchine per gli elettrogrammi portatili, salirono sul gradino più alto del podio i noodles istantanei, pasta lunga di grano, tipica del ramen, inventati quasi 50 anni prima da Momofuku Ando, fondatore e presidente della Nissin Foods. La notizia, anche se derubricata a “curiosità dal mondo”, è però fondamentale per tarare l’importanza del culto del ramen nella cultura (non solo) giapponese.
Facciamo un passo indietro. Il ramen è un piatto tipico della cucina nipponica e si tratta di un piatto di noodles in brodo che può essere di diversi tipi: di carne, pesce, misto, di verdure. Oltre a questi due ingredienti, come a creare un piccolo ecosistema, nella scodella possono “nuotare” pezzetti di carne di maiale, uova, alghe nori, kamaboko (il piccolo disco bianco e rosa fatto di surimi e pesce), salsa di miso o di soia.
Ma questo è solo quello che cattura una storia Instagram, perché dietro al ramen, oltre a una indiscutibile filosofia, c’è una vera e propria scienza esatta. Federico Congiu, chef di origine sarde che, dopo aver vissuto due anni in Giappone, ha aperto a Melbourne, in Australia, Parco Project, catena con tre ristoranti di ramen, ci aiuta a capire perché ha successo: «Il ramen non è un fucking minestrone, bisogna studiare le quantità al millimetro, calcolare le densità della componente liquida, la reazione chimica tra noodles, grasso e brodo in modo impeccabile». Non si potrebbe, infatti, fare il ramen con un altro tipo di pasta, tipo quelle a cui siamo abituati in Italia. Nei noodles quello che conta è la percentuale di kansui, carbonato di sodio, sostanza molto alcalina che contribuisce a scatenare la reazione chimica per cui, a contatto con brodo e grasso, la pasta diventa “limacciosa”.
Una volta che le componenti sono bilanciate e che la densità del brodo è stabilita, si può lasciare sfogo alla creatività perché, continua Congiu, «è divertente che fuori dal Giappone quasi chiunque cucini e mangi il ramen lo faccia avendo in testa un’idea molto rigorosa della ricetta e per esempio pensa che il brodo possa essere fatto solo con carne di maiale. I giapponesi non si pongono nessun limite, sono molto più aperti. Una volta che hai il controllo, puoi fare quello che vuoi». Proprio su questo mantra Federico Congiu ha costruito il suo successo, proponendo diversi tipi di ramen tra cui quello a base di aragoste. Perché se il ramen è il risultato alchemico di tre componenti – il brodo, i noodles e il topping – i primi due devono essere scientificamente bilanciati, mentre è sul terzo – il topping/condimento – che si gioca con la creatività.
Come la strada che ha portato Congiu a esplorare la cucina giapponese, anche quella che ha portato il ramen tra le vie delle nostre città parte da lontano, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale per essere precisi. Sono i soldati giapponesi di ritorno dalla Cina, dove avevano combattuto e conosciuto questo piatto millenario, a importarne la preparazione. In quegli anni i noodles diventarono un alimento cruciale anche a causa della crisi agraria che tolse il riso dalle tavole e per la conseguente e massiccia importazione di farina dagli Stati Uniti. Così il ramen nel tempo si trasforma da piatto delle grandi occasioni a cibo di massa. Dal Giappone, finisce nelle tavole occidentali per la sua prepotente presenza iconografica nell’im- maginario nipponico di cui, decennio dopo decennio, i nostri gusti – estetici e culinari – hanno sempre fatto grandi scorpacciate.
Sullo schermo, invece, dobbiamo tornare indietro di quasi quarant’anni. Nel 1985 esce Tampopo di Itami Juzo: la storia di una cuoca piuttosto modesta che viene istruita nella preparazione del ramen da Goro, un camionista con il palato raffinato e bramoso. Il tutto però ha delle tinte alla Sergio Leone che gli sono valse l’etichetta di ramen western. Il film è un quasi un flop in Giappone, ma ha successo all’estero e aiuta a definire per gli occidentali l’estetica e la filosofia del ramen. Una storia che 23 anni dopo torna nelle sale cinematografiche, non a caso americane, con Brittany Murphy nei panni di una Ramen Girl che, per superare il trauma della fuga del ragazzo per cui si era trasferita a Tokyo, concentra tutte le sue energie per imparare a preparare il ramen guidata da un burbero sensei che l’accompagnerà in questo percorso di crescita interiore da romanzo di formazione. Tranquilli, se arrivati qui non volete far altro che farvi coccolare da un ramen, magari dopo una giornata difficile, ricordate di fare slurp mentre lo mangiate: non è banalmente un gesto per freddare il boccone, ma anche il miglior modo per gustarne insieme le componenti e farsi trascinare nel suo gusto, dove precisione, caso ed estro si intrecciano come in quelle storie universali che in piccoli bocconi racchiudono la complessità dell’eternità.
Articolo pubblicato su WU 123 (dicembre 2023)
Nella foto in alto: foto di Kae Ng da UnSplash
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