ALESSANDRO COMODIN – IL FENOMENO “GIGI LA LEGGE”
Il regista Alessandro Comodin e il protagonista Pier Luigi Mecchia, alle prese con il tour nelle sale di tutta Italia, ci raccontano il loro film (in uscita il 9 febbraio) tra realtà e finzione, in cui un poliziotto, il Gigi del titolo, si occupa di un misterioso caso di suicidio.
di Davide Colli
Dopo i saluti prima della proiezione al Cinema Anteo di Milano, ci è stata data occasione di chiacchierare con Alessandro Comodin (L’Estate di Giacomo) e suo zio Pier Luigi Mecchia, vero vigile urbano e mattatore assoluto dell’ultima opera del nipote, Gigi La Legge, presentata per la prima volta al pubblico durante l’ultima edizione del Festival di Locarno, durante il quale ha vinto il Premio Speciale della giuria.
Il tuo film è un connubio tra realtà e finzione, documentario e film narrativo. Quanto c’è di scritto in quest’opera e quanto è lasciato all’espressione della realtà o all’improvvisazione?
Alessandro Comodin: È una domanda difficile a cui rispondere, in quanto tutto è completamente mescolato. Abbiamo cercato durante tutti gli anni di lavoro di trovare un giusto equilibrio per poter fare un vero film con un personaggio reale, ma tenendo dei capisaldi di finzione che lo rendessero narrativo. Il lavoro di ricerca è stato mettere insieme tutti gli elementi della realtà per poterli a volte riprodurre, a volte lasciarli intatti, per poter permettere ai personaggi di essere completamente liberi. Intorno, ovviamente, c’è un dispositivo macchinoso per fare in modo che i personaggi, in particolare Gigi, potessero trovarsi all’interno di una realtà autentica, un mondo parallelo. I dialoghi sono tutti farina del suo sacco, ma non si tratta di improvvisazione perché non abbiamo mai rifatto la stessa scena, eccetto per sequenze di raccordo, più tecniche. La scena del ritrovamento del corpo, ad esempio, credo possa parlare del metodo utilizzato: è tutto falso, ma al tempo stesso, completamente vero; una condizione essenziale per mantenere una credibilità nei confronti dello spettatore.
Come e quando hai deciso di inserire l’elemento misterioso, il lasciato in sospeso che permea lungo tutto il film e che ricorda molto l’approccio di Twin Peaks?
AC: La prima scena è quasi il manifesto del film, come se facessi un contratto con lo spettatore: presenta il personaggio principale, che non è un attore, però al tempo stesso ci sono le luci, quindi si vede una traccia artificiale. Qui entra in gioco anche tutto il lavoro sul fuoricampo, che è la cifra di tutto il film. In questa scena è frontale, in quanto non si vede l’interlocutore di Gigi, un vicino invisibile. Potrebbe anche essere che Gigi parla da solo. Credo che sia un punto d’incontro tra una modalità di lavoro documentaristica, ovvero la disponibilità di un solo ciak, e gli elementi concreti della finzione, come le già citate luci. Il ritmo è un altro aspetto importante, in quanto rende pian piano surreale una situazione ordinaria e banale. Come se la realtà, con qualche piccola modifica, solo rimanendo a guardarla, si trasfigurasse. Questo è possibile lavorando con immagini grezze, senza effetti.
Gigi, nel suo essere spontaneo e genuino, è diventato a suo modo iconico. Quanto credete che la semplicità e l’immediatezza contribuiscano a raggiungere tale stato al giorno d’oggi?
AC: Secondo me Gigi, anche nella vita reale, è talmente empatico che in qualche modo assorbe dal suo interlocutore un punto di vista sul mondo. Gigi prende tanto e, quello che ha assorbito, lo riporta al suo interlocutore in maniera sempre piacevole. C’è una grande generosità e un grande gioco in Gigi: gli piace scherzare e provocare e anche mescolare, all’interno dei suoi discorsi, racconti e aneddoti che provengono anche da tradizioni popolari e anche televisivi. C’è quindi molto la dimensione dello scherzo: con il solo fatto dell’indossare la divisa, noi giochiamo coi codici culturali della commedia all’italiana, citando Il Vigile con Alberto Sordi. Nel suo atteggiamento c’è molto del Massimo Troisi e del Roberto Benigni giovane.
Pierluigi Mecchia: Lo traduco alla mia maniera. Per il resto, posso solo dire di essere incredibilmente grato a mio nipote per avermi reso immortale.
AC: C’è anche quell’impronta da commedia di provincia, semplice, che comunque costituiva una cifra del cinema italiano e che si è andata persa per far eccessivamente spazio a luoghi comuni.
Quanto secondo te la specificità del luogo, della location, in questo caso la cittadina di San Michele al Tagliamento (VE), è importante in una produzione cinematografica al giorno d’oggi?
AC: Ho sempre cercato, anche nei miei precedenti film, delle situazioni prosaiche e banali. Più brutta è la realtà e il luogo, quindi meno è considerato “cinematografico”, più per me, paradossalmente, diventa interessante, universale. I luoghi diventano specchio delle persone che li abitano. Non potevo lavorare con nessun altro se non con Gigi, un non attore a cui la camera puntata addosso dà fastidio e suscita timidezza. I posti è fondamentali siano autentici anche per la sua “recitazione”, sono luoghi che deve conoscere. Non potevamo andare davanti a un passaggio a livello ben assestato.
I due brani inseriti nel film, Sono un pirata, sono un signore di Julio Iglesias e Amore Disperato di Nada, sono stati inseriti in sceneggiatura o sono tra le canzoni che Gigi ascolta abitualmente?
PLM: Julio Iglesias è scaturito durante un dialogo tra me e Massimo, mentre parlavamo di ragazze, uomini che si innamorano, relazioni e delusioni amorose. Massimo ha accennato a questa canzone e lo abbiamo canticchiato un attimo, stonati come sempre. Anche perché durante l’orario di servizio siamo soliti canticchiare un po’ per passare il tempo, sfatare la realtà, essere frivoli e innamorarsi, perché no. Invece, per quanto riguarda la canzone di Nada, l’ha messa il regista, che ha capito che funzionava, che ci coinvolgeva emotivamente. Lo canticchiamo io e la Ester (Vergolini, ndr), che è la figura femminile, questa dea dell’amore e del sogno irraggiungibile. L’Amore Disperato di Nada si intona perfettamente, cade a puntino, diventa l’ingrediente che dà il tocco a questa pietanza, che diventa un capolavoro. La ciliegina sulla torta.
AC: Nel film non c’è musica composta, come negli altri che ho fatto. Non sono dogmatico, ma mi piace così. Però prendo delle canzoni già esistenti, che hanno uno specifico significato per quello che rappresentano per gli ascoltatori. Sono codificate e situate nel tempo, ma soprattutto hanno delle parole, facendo una sorta di commento al film. Le canzoni, come i personaggi e i luoghi, sono oggetti della realtà, che io introduco in modo artificiale.
La foto in alto di Alessandro Comodin è di Massimo Piccoli
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