ENEA COLOMBI – NON È MAI TROPPO PRESTO
È uno dei registi che, negli ultimi anni, ha saputo rinnovare l’estetica del videoclip in Italia, a prescindere dal genere. Sarà – speriamo – la persona che convincerà le major di casa nostra a guardare di più alla scena europea e a destinare “sacrosanti” budget non solo al rap
di Alessandra Lanza
Enea Colombi è nato e cresciuto in provincia di Piacenza. Ha iniziato a fare video al liceo ed è arrivato al primo contratto con Universal appena prima di prendere la patente. «Mi hanno telefonato mentre ero a scuola guida – ci ha detto – ho pensato: senza macchina come faccio ad andare a Milano?». Il primo lavoro risale a otto anni fa, in cui raccontava l’inverno nel suo paese. Ha firmato nel 2018 il video della svolta di Elodie, Nero Bali, in cui la hit estiva veniva finalmente vestita in maniera diversa; nel 2019 ha contribuito a definire l’estetica di Mara Sattei, una delle voci femminili italiane più promettenti; quest’anno ha raccontato il nuovo album di Mecna in uno splendido corto, oltre a firmare la sua prima campagna internazionale per Diesel. Nonostante il curriculum, Enea Colombi preferisce non riportare la sua età, perché in Italia, soprattutto nei commercial, rivelare di essere giovani può farti prendere meno sul serio.
Quando hai capito che il video era la tua strada?
Faccio parte di quella generazione nata con i computer e sono sempre stato un nerd con una certa predisposizione. Insieme, i miei erano persone appassionate di arte e fotografia, e mi hanno dato un imprinting di cui ai tempi non ero pienamente consapevole. Al liceo seguivo gli youtuber, all’epoca una sottocultura che rompeva con gli schemi di comunicazione tradizionale e che mi piaceva molto. Mi si è aperto un mondo, avevo 15 anni. A 17 ho iniziato a mettermi in gioco, mandando i miei video fatti per gli artisti di provincia a etichette di Milano e Torino, e da lì ho cominciato a lavorare sempre di più.
Sulla tua pagina Vimeo ci sono pochi video rispetto ai moltissimi che hai realizzato, e solo i più recenti. Come valuti il tuo lavoro degli ultimi cinque anni?
Cinque anni fa ero un’altra persona. Facevo cose commerciali che potessero dare una dimostrazione tecnica del mio lavoro e di quello che ero capace di fare, la necessità prima era farmi conoscere e creare un network. Poi ho potuto iniziare a proporre la mia visione artistica, che spesso erano prima gli altri a riconoscere. Ogni giorno mi rendo conto che vorrei cancellare quello che ho già fatto, continuo a cambiare punto di vista, più per un bisogno di sperimentazione che per insicurezza. Questa perenne rincorsa al rinnovamento, insieme alla continua mediazione con i budget, porta spesso insoddisfazione, ma dà anche la forza di continuare e lo stimolo per creare cose nuove.
Si trovano ancora in giro i tuoi primissimi video?
No, anche perché gli artisti emergenti, oggi soprattutto, hanno la tendenza a rinnegare ogni anno la propria identità, stravolta dalle etichette. Ci sono quelli del primo rapper con cui ho collaborato, Vegas Jones: oggi siamo molto amici, più amici che collaboratori forse.
Quanto aiuta essere amico dell’artista con cui collabori?
È un’arma a doppio taglio, in primis per le dinamiche con l’etichetta, il tuo cliente, che condivide con te informazioni a cui l’artista non dovrebbe avere accesso, tipo i budget. Se il budget nel rap è di solito molto più alto, su altri generi che sento più vicini l’idea prevale grazie alla forza di volontà e alla fiducia che mettono gli artisti in te, che permettono di superare alcune barriere. Con Mecna sono talmente sulla stessa linea d’onda che il nostro pensiero va al di là di budget o amicizia.
Il matrimonio tra immagini e video nel corto che hai realizzato per il lancio del suo nuovo album è riuscitissimo. Quando è importante per Enea Colombi lavorare con buona musica?
Suonerà snob, ma per alzare la qualità ora devo dire il più possibile di no, e sto accettando solo lavori in cui la musica è buona e mi rappresenta. Comunque si può fare un bel lavoro anche su una canzone che non ti piace, proponendo all’artista qualcosa di non canonico. Il video che più ha fatto decollare la mia carriera è Nero Bali di Elodie, per cui ho proposto immagini in netto contrasto rispetto alla tipologia di suono e di pubblico. Anche per Simba di Ernia, con la scelta di location – la casa di Mollino a Torino – un certo styling e un certo casting femminile ho scelto il contrasto, e molti sono in seguito andati a riprodurre le mie scelte.
L’architettura è una presenza fissa nei tuoi video, in linea con la rivincita delle periferie in molti videoclip di questi anni. Dove fai ricerca e come la abbini all’artista?
I miei video non sono quasi mai didascalici, parto dalla melodia del brano e l’associo naturalmente a colori, forme, situazioni, seguendo delle vibe interne. Le idee, sono nell’aria e oggi è in corso una nuova globalizzazione delle immagini, con un conseguente appiattimento: quando una cosa va su Instagram diventa reference alla portata di tutti. Per questo sto cercando di pescare dal mio archivio di libri, tornando a una fonte analogica meno accessibile. Faccio ricerca sull’architettura per giornate intere: le immagini vengono memorizzate e archiviate dal cervello e riaffiorano quando ascolto certe cose, in un abbinamento quasi automatico.
Senti di appartenere a una scena/scuola video italiana di qualche tipo, se esiste?
Difficile rispondere. All’interno della scena non c’è molta comunicazione, è raro che più di due registi che stanno andando forte si parlino o siano amici. Per me Lettieri è sempre stato un punto di riferimento e una reference, ma non posso dire di appartenere a quella scuola, perché non abbiamo mai avuto occasione di confrontarci. Forse mi sento parte di una scena, ma non saprei dirti quale: mi rivedo in certi lavori, ma sono conscio che allo stesso tempo sto creando un mio filone. Di sicuro, le mie reference oggi non sono in Italia, ma all’estero, in particolare in una certa scena francese di artisti come Vendredi sur Mer, Angele e Lous and the Yakuza, The Blaze, Francois Rousselet, Yoann Lemoine (Woodkid), Romain Gavras.
Si cita, si ruba, si reinterpreta?
Io sono per il reinterpretare. La citazione mi piace, ma è fine a se stessa: puoi citare qualcuno quando sei qualcuno, altrimenti è un copiare. Il reinterpretare è più difficile ed è interessante perché ti permette di far rivivere immagini dimenticate, e di farle tue. Il rubare viene considerato a volte un atto geniale, io non mi sento di demonizzarlo, ognuno ha il suo percorso.
Fammi un esempio di una tua reinterpretazione.
In Mecna l’immagine del protagonista che frusta l’acqua con un bastone è presa da 2001: Odissea nello Spazio. In passato ho preso molto dai grandi quadri: il video di Netflix di Lazza è nato da La zattera della medusa di Gericault. Una delle mie ultime reference è un’immagine di un film di Tarkovskij, una casa che brucia in lontananza in un campo. Sto cercando di convincere una produzione di Roma a inserirla in un prossimo video, è in corso un braccio di ferro.
In Italia ci sono stilemi necessari nei video da cui non riusciamo a liberarci?
Sia nella musica, ma altrettanto nei commercial, c’è paura di introdurre certi corpi, volti, azioni e nuclei familiari. Tolti piccoli progetti come Fantabody, non esiste inclusività. Ho sempre cercato un’estetica inclusiva, non mi interessa un corpo, ma ciò che può esprimere una persona. Per questo ho sempre lavorato con una sola agenzia di casting, Persona, che opera proprio in questo senso, al di fuori di canoni “tradizionali” di bellezza.
Perché in Italia sembra sempre di essere un passo indietro?
Il problema sta nella tipologia di musica proposta e nel fatto che i grandi budget vengano spesso investiti su ciò che piace alla massa, penalizzando gli artisti più indipendenti e interessanti che potrebbero dialogare con l’estero. In Francia, Spagna, Olanda, anche quelli più piccoli hanno budget importanti a disposizione. Ed è fondamentale, perché il videoclip costituisce il 60-70% dell’identità musicale di un artista: da noi manca una cultura dello spettacolo, sulla comunicazione si investe poco e si tende a vivere di reference, un problema che capita anche a me di vivere. Ma anche l’artista ha un peso enorme: il pop italiano non si avvicina a un gusto europeo, ma a un immaginario quasi sudamericano per mood e colori. Poi, sono gusti: se al popolo piace Alessandra Amoroso che fa karaoke, è giusto che abbia quello.
Mai come nel 2020 abbiamo visto quando l’industria sia sottovalutata e priva di tutele. I budget oggi sono ancora più un problema?
Sono chiaramente inferiori, le creatività ridotte allo stretto necessario e vittima di protocolli rigidi legati al contesto che stiamo vivendo. Se prima si poteva lavorare anche a fronte di budget ristretti, ora a ogni attore sul set ora va fatto almeno un tampone. Se in scena ne hai 10, calcolando anche le persone di backup in caso ci fossero dei positivi, e l’infermiere sul set per fare i test, se ne vanno 5 mila euro. Sui grandi lavori cambia poco, ma piccoli e medi ne risentono. E sono quei progetti che io accettavo più volentieri perché lasciano più libertà creativa, la possibilità di dire: «Questo sono io». Ora nel piccolo si può sperimentare, ma entro limiti sempre più ristretti.
Che direzione prenderà Enea Colombi?
Sicuramente la strada è tutta in salita. Conquistata l’autonomia autoriale, lo step successivo è riuscire a lavorare con l’estero e ad aprirmi una strada anche nei commercial internazionali. Il mio grande sogno è il cinema, meglio se serie.
Intervista pubblicata su WU 105 (dicembre 2020 – gennaio 2021). Segui Alessandra su IG
Nella foto in alto: Enea Colombi
I video di Enea li trovi sulla sua pagina di Vimeo
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